La recensione
Un libro-fotografia, un libro-pellicola. Attraverso la storia dell’eroe semplice Domenico Vanni, sembra di vederla - non come una cartolina polverosa ma con i colori della vita reale - quell’Italia che usciva dalla guerra e si affacciava verso il futuro. Carlo Azeglio Ciampi ha di recente ricordato la gioventù italiana di quegli anni, che non aveva nulla di materiale ma ogni giorno si risvegliava con la passione e l’energia di chi vuole ricostruire. Quelle generazioni ritornano protagoniste nelle pagine di Ridolfi, pagine mai didascaliche, intrise di sentimenti eppure solide e documentate. Per certi versi, leggere questo volume è come immergersi in un film di Monicelli o di Rossellini, in una narrazione di Cassola. Ma il “film” parte molto prima del dopoguerra. C’è la leggerezza incosciente di un Paese che spianò la strada al regime e ne subì passivo le violenze e gli errori. Ci sono quei ragazzi italiani che attraversarono il fascismo come una malattia lunga e dolorosa ma mai mortale, perché la loro fede nella libertà era più forte e un giorno avrebbe vinto. Poi c’è la guerra civile, le atrocità, la ricostruzione vista non in astratto
ma nella vita quotidiana dei nostri borghi, distrutti dalle bombe eppure vitalissimi, quasi euforici, ubriachi di democrazia. E c’è il dopoguerra, la ripresa, la crescita, il cambiamento politico e sociale. Ma nel libro di Ridolfi c’è anche altro, qualcosa che scotta e coinvolge subito il lettore: una ricerca di verità che costringe a infrangere molti miti, molta di quella retorica sulla Resistenza che per decenni ha inchiodato l’Italia ad una finzione. Da un lato c’era il Male del fascismo oppressore, dall’altro il Bene assoluto della Liberazione. La Liberazione fu una grande prova di orgoglio e di riscatto nazionale. Ma fu anche la vicenda di un popolo che - magari proprio nella Toscana della vivacissima Marradi o nell’Emilia-Romagna, regioni prima così nere poi d’incanto così rosse - cambiò bandiera per puro opportunismo. Fu, soprattutto, la durissima e sorda lotta fra i liberatori, che proseguì quella combattuta nei tempi dell’esilio e dell’antifascismo letterario ed epistolare. Se negli anni ’20 e ’30 Matteotti, Turati, Gobetti e Rosselli erano fra i principali nemici di Gramsci e di Togliatti, un attimo dopo aver sconfitto il nazifascismo quel conflitto si ripropose con forza, seppur celato dal trionfalismo di un Paese in festa e dalla geopolitica che voleva l’Italia in ogni caso “occidentale” e “americana”. Ben poco emerse, quindi, di un duello cruento che si svolse senza nessuna ribalta, come sepolto e dimenticato. Ben poco restò, nella memoria collettiva, di quel sangue che - per avvicinarci alla formula usata da Pansa, “Il sangue dei vinti” - fu il sangue innocente dei “vincitori”: i socialisti riformisti in primis, ma anche i liberali e i cattolici, che avevano vinto anch’essi la guerra alla dittatura ma furono presto schiacciati dall’organizzazione militare comunista. Una cultura totalitaria non dissimile da quella appena sconfitta, anzi certamente più feroce e determinata. “Mio nonno fu tanto antifascista quanto anticomunista”, dice Rodolfo Ridolfi di Domenico Vanni, e si coglie nelle sue parole un orgoglio trattenuto troppo a lungo, perché nell’antifascismo di maniera i due totalitarismi erano visti come sideralmente distanti. Invece, a creare questa separazione fu solo la tracotanza dei più potenti fra i vincitori che, come sempre accade, riscrivevano la Storia a loro piacimento. La vita di Domenico Vanni, che per l’autore è il punto di incontro di “ricordi, convinzioni ed emozioni”, va quindi oltre la biografia e diventa l’occasione di riscoprire ciò che siamo stati davvero. Per capire cosa abbiamo conquistato ma anche cosa abbiamo rischiato; per capire che nel nostro DNA ci sono l’eroismo e la passione per la libertà ma anche la tendenza alla violenza protetta dal potere e il cedimento alla demagogia di moda in quel momento. Nella storia di Vanni c’è la grandezza della passione dei socialisti e, insieme, il dilemma delle loro divisioni, delle riappacificazioni sempre troppo labili. Dagli anni di Parigi a contatto con Nenni, Rosselli, Colorni, Amendola all’incontro fulminante con il giovane Giuseppe Saragat, che - scrive Ridolfi - “abbracciò il filone socialdemocratico nordeuropeo, era antisovietico ed ebbe su mio nonno un’influenza straordinaria e ne segnò il credo politico, allontanandolo con dolore da Nenni e Pertini che mio nonno riabbracciò solo al Congresso dell’unificazione socialista dell’Eur nell’ottobre del ‘68”. Cinquant’anni di grande storia politica, insomma. Ma Vanni è stato soprattutto un uomo autentico, carico di virtù e vizi (lo scrisse lui stesso: “Nella vita privata ed in certi passaggi della mia esistenza ho fatto il disastro”... Ma fu troppo severo). Lo scalpellino con la licenza elementare sempre allegro e sempre testardo (il “testone pericoloso” delle veline fasciste). Il paesano dalla vita semplice fatta di bicicletta e di amici che restano tali anche dopo il campo di concentramento. Il passionale che rischia la galera per concepire un figlio durante una fuga dal campo di battaglia della prima guerra mondiale. Il politico locale che ai primi anni ’20 prende le botte dai fascisti ma non si scompone e va in consiglio provinciale a sbeffeggiarli (“Chiese la parola, ma il presidente Giulio Masini obbiettò che il suo intervento non era all’ordine del giorno. Lui prontamente replicò: Neppure le botte che ho preso erano all’ordine del giorno”. Difficile dipingere meglio la tempra del testone socialista Vanni). L’esule che a Parigi per 20 anni, dal ‘23 al ‘43, fece l’imprenditore, restando però sempre il militante politico in attesa che il suo Paese rivedesse il sole. L’antifascista che rientra in Italia e salva alcuni aviatori americani, viene torturato dai fascisti, viene internato a Mathausen, “da dove solo un prigioniero su dieci è uscito vivente”, come si legge su una sua biografia dell’epoca. L’uomo orgoglioso che torna in Italia dopo aver sconfitto la barbarie: “Mi sembra un sogno, paragonabile alla gita fatta da Virgilio quando visita l’Inferno e il Purgatorio, però mi è riservato l’onore di rientrare nel Paradiso... Torno invecchiato e canuto per le sofferenze, ma ritto sui nervi e più vivo che mai per la vittoria in pugno”. Il politico socialdemocratico del dopoguerra, un’era di conquiste civili e di conferme ma anche di solenni delusioni: al congresso PSI-PSDI di Marradi del 1968, stanco delle troppe correnti, Vanni si mise a canticchiare: “Un esercito diviso la battaglia perderà”. Quante avventure, quanti capitomboli. Ma resta sempre lui. Una figura bella e coerente di riformista, uno per cui il “partito dei deboli” era la seconda pelle; quindi, spesso, un uomo apparentemente molto solo. Dico “apparentemente” perché solo non è stato mai. Con lui c’erano ideali, incrollabili e amici sinceri - ricorda Beppino Ridolfi tanti anni dopo: “Mi viene freddo a pensare a come eravamo amici, io ventenne alla macchia nel ’43 perché era uscita la chiamata di leva della Repubblica di Salò, lui cinquantenne che mi raccontava la sua vita, i suoi nascondigli, le sue avventure”. Ma c’era anche, in un certo senso, tutta la gente italiana. Perché gli italiani hanno una loro peculiarità, una forza interiore che si manifesta nei momenti decisivi. Anche questo affiora dal libro. È come se, tutti insieme, si riuscisse ad essere migliori che presi da soli, come individui. Tutto quanto oggi abbiamo di positivo e di prezioso lo dobbiamo ad una volontà collettiva che in alcuni momenti importanti ha saputo cogliere le opportunità di progresso e di libertà, e fissarle nel suo destino. Certo, il popolo dell’Ottocento che, da sempre succube degli stranieri, coniò il famoso detto “Franza o Spagna basta che se magna”, non è certo scomparso del tutto. E così il popolo acclamante sotto ogni balcone di ogni possibile Piazza Venezia. Ma ci sono sempre stati tanti Domenico Vanni che hanno testimoniato valori sentiti e limpidi - riforme sociali, diritti civili ed economici - e che hanno aiutato l’Italia a non sbagliare nelle scelte che contano: “Carissima figlia, nella vita non si vive solo di pane - scrisse Domenico alla mamma di Rodolfo Ridolfi - ma anche di soddisfazioni, e l’andata al Governo del Socialismo intero è per me un Trionfo”. Proprio così, con le maiuscole. Chissà che direbbe, Domenico Vanni, di questi tempi di crisi economica e soprattutto morale del nostro Paese. Forse, con il suo tono di toscano di Romagna senza dogmi e senza chiesa, lui che fu capace di sopravvivere ai fascisti, ai nazisti e ai comunisti per poi morire quasi per caso, lui che nel ricordo di suo nipote Rodolfo è un eroe provvisto di “ironia e lucida follia”... forse lui riuscirebbe a rincuorarci: cari connazionali, non mollate, non vi deprimete, per noi italiani ogni crepuscolo è sempre e solo provvisorio. Marco Villani Professore di Diritto Costituzionale
Nessun commento:
Posta un commento