Per
me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro -. La morte di
Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite.
Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi
tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe
Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a
quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della
tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo
potevo salvare. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di
Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca,
per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco
dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo
di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi
precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa.
Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero
sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella
tempia». E la pistola? «Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il
maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il
giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra
giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun
film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno,
cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla». Scusi Di Pietro,
ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini? «Per carità, Borrelli affidò
correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse,
ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale? «Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto,
non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale,
coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli,
che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e
anche un coitus interruptus».
LIMPRENDITORE
RAUL GARDINI
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo. «Capisco,
non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato
una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che
nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo
qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre,
aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non
sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla
soglia dell'istituto pontificio...». Ancora i dossier? «Vada a leggersi la
relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal
capo della polizia Parisi a Craxi». Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno
potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano
perché li teniamo in carcere sperando che parlino». «Può darsi che abbia detto
davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come
si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando
arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo
la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento
diverso. «Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro
responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino.
Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini
non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti»
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