La giungla puzza, la giungla fa schifo. "Grande Jungle" è il
nome dato dagli abitanti di Calais all'enorme bidonville sorta alla periferia
della città francese sulla Manica, popolata di quattromila migranti che da mesi
attendono di poter passare in Gran Bretagna. Quando entri nella giungla sono accolto da un
odore acre che penetra nelle narici nonostante il vento forte che spira dal
mare. È un misto di spazzatura, sudore e urina che si solleva dalle tende e
dalle baracche dello slum. La maggior parte degli immigrati vive in tende di
plastica da campeggio, assicurate al terreno con mattoni e pietre. A pochi
metri dalla spiaggia, tra le dune sorgono i vari quartieri della giungla. Alcune
bandiere indicano le zone dove si radunano le varie nazionalità: qui gli
afghani, lì i sudanesi, poco oltre gli eritrei. Chi è arrivato da poco dorme tra i cespugli,
riparandosi alla bell'e meglio con un telo di plastica teso tra gli arbusti.
Chi è qui da molti mesi è più organizzato e vive in baracche abbastanza alte da
poterci stare in piedi. All'ingresso della giungla sono presenti alcuni bazar:
catapecchie di assi e lamiera che espongono prodotti perlopiù alimentari in
vendita per pochi euro. Entro
nell'osteria di Sekhandar, afghano. "Questo è il mio ristorante",
dice orgoglioso. Mostra una tenda non più lunga di sei o sette metri, alcuni
tappeti disposti per terra intorno a un tavolino. Dietro un bancone, la
rudimentale cucina. L'oste cucina piatti afghani su un fornelletto a gas,
mentre entriamo sta arrostendo due cosce di pollo. Lo condirà con le erbe che,
a mazzi, pendono dal soffitto. Addossati a una parete, alcuni scaffali carichi
all'inverosimile di bevande gassate, prodotti per l'igiene e cibo in scatola:
sono i prodotti in vendita per gli abitanti dello slum. Quando entra un cliente e compra delle
bottiglie d'acqua, paga fino all'ultimo centesimo estraendo dalla tasca un
rotolo sorprendentemente spesso di banconote. Sekhandar, d'altronde, ci
conferma che tutti i suoi clienti pagano regolarmente il conto."Io vengo
dall'Italia, ho vissuto alcuni mesi a Bolzano – mi racconta – Mi trovavo bene,
ma gli Italiani sono razzisti, se entri in un negozio e hai la pelle scura ti
guardano storto. In Italia nessuno fa lavorare gli immigrati, molti ci dicono
di tornare al nostro Paese.
Ma noi rendiamo l'Europa più prospera e più grande." "Sono venuto a Calais nella speranza di
passare in Inghilterra, ma non ce l'ho fatta – conclude –Ora ho questo piccolo
ristorante e non mi lamento. Questo però non è un lavoro, ma solo ciò che
faccio per non morire." Poco oltre
il ristorante afghano si apre uno spiazzo, dove decine di immigrati siedono a
terra in cerchio. Da una cassa l'impianto stereo diffonde a tutto volume una
musica arabeggiante. Mi avvicino per capire cosa succeda e mi accorgo che
quella folla si raduna intorno a un generatore di elettricità: fanno la fila
per ricaricare il telefono cellulare.
Stranito, passo oltre, quando mi attira la visione di una croce issata sulla fronte di un edificio di assi e tavole di compensato. Sapevo che nella bidonville c'era una moschea, ma non ancora una chiesa. Girando tra le tende più vicine, scopro che è una chiesa costruita dai migranti cristiani, in gran parte africani. All'interno è un trionfo di immaginette e statuine di plastica, depositate intorno a una grande croce di legno appoggiata alla parete di fondo. Di fianco alla porta, una campana legata a un palo serve a chiamare i fedeli a raccolta. Un ragazzo eritreo, David, mi mostra l'interno e mi porta fino a una conduttura dell'acqua. Alcuni rubinetti di tipo industriale devono soddisfare le esigenze di migliaia di persone. Forse è qui che prenderanno l'acqua benedetta, ma per il momento le riserve delle taniche servono soprattutto a lavarsi e a spegnere la sete. All'ingresso della favela, ricordo di aver visto una fila di bagni chimici, forse portati lì dalle autorità francesi. Nella Giungla, l'unico segno tangibile delle istituzioni sembra essere i cessi: una metafora del luogo dove molti vorrebbero confinare quest'umanità reietta.
Stranito, passo oltre, quando mi attira la visione di una croce issata sulla fronte di un edificio di assi e tavole di compensato. Sapevo che nella bidonville c'era una moschea, ma non ancora una chiesa. Girando tra le tende più vicine, scopro che è una chiesa costruita dai migranti cristiani, in gran parte africani. All'interno è un trionfo di immaginette e statuine di plastica, depositate intorno a una grande croce di legno appoggiata alla parete di fondo. Di fianco alla porta, una campana legata a un palo serve a chiamare i fedeli a raccolta. Un ragazzo eritreo, David, mi mostra l'interno e mi porta fino a una conduttura dell'acqua. Alcuni rubinetti di tipo industriale devono soddisfare le esigenze di migliaia di persone. Forse è qui che prenderanno l'acqua benedetta, ma per il momento le riserve delle taniche servono soprattutto a lavarsi e a spegnere la sete. All'ingresso della favela, ricordo di aver visto una fila di bagni chimici, forse portati lì dalle autorità francesi. Nella Giungla, l'unico segno tangibile delle istituzioni sembra essere i cessi: una metafora del luogo dove molti vorrebbero confinare quest'umanità reietta.
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