I
premi vinti dal Piano Regolatore di Faenza
1999
- ROMA: Piano
Regolatore Generale
1° Premio Nazionale ENEA al PRG di Faenza per lo sviluppo sostenibile
1° Premio Nazionale ENEA al PRG di Faenza per lo sviluppo sostenibile
25-4-201 Resto Carlino Bologna di GILBERTO DONDI.
Alberto Vecchi*, l’accusa di truffa è grave e lo è
ancor di più in questo periodo di crisi in cui un precario e un disoccupato
1.500 euro al mese li sognano. «Sono
davvero amareggiato. Respingo l’accusa categoricamente. Io risiedo a
Castelluccio, la gente del posto lo sa. Ho percepito i rimborsi in base al
regolamento regionale, in modo limpido. Chi mi conosce sa che sono onesto e mi
impegno sul territorio. Non si possono infangare così 30 anni di onorata e
splendida carriera politica». Secondo gli appostamenti e i tabulati, lei
risiede a Bologna. In oltre un anno risultano da Porretta solo 15 telefonate.
«Non
è così. Da quei tabulati risulta che al mattino, tra le 7 e le 11, per il 50%
del tempo il mio telefono aggancia le celle dell’Alta-Media valle del Reno, per
il restante 50% quelle di Bologna dove abitano mia moglie e mio figlio. E poi
il 35% totale del mio traffico risulta in viale Aldo Moro. La mia auto sotto
casa di notte? Era la Yaris, intestata a me ma in uso a mia moglie. La mia è la
Tuareg. Sono stato controllatissimo dai vigili di Porretta, che mi hanno
confermato la residenza». Su 10 controlli l’hanno trovata a casa una
volta sola. «Per forza, venivano di
giorno. Io sto a Castelluccio la sera tardi, per dormire, dai 2 ai 5 giorni a
settimana. Poi la mattina riparto presto e loro non mi trovavano». Perché
la residenza lassù, presa proprio quando entrò in Regione? «Ho attività imprenditoriali e sportive là. I
rimborsi li potevo chiedere anche prima, quando ero in Provincia, ma non l’ho fatto.
Le due cose non sono legate». Pensa alle dimissioni? «Non scherziamo neppure». Lei
guadagna 5.600 euro al mese. Perché non rinuncia ai rimborsi? «Io rispetto le regole, come gli altri. C’è
chi prende gli stessi rimborsi pur spostandosi in treno o spendendo meno.
Vogliamo cambiare le regole? Per me va bene». Però il primo passo non lo fa... «Devo parlare con il mio capogruppo. Sono orgoglioso e cambiare la
residenza, quando ero sotto attacco da parte dei grillini, avrebbe voluto dire
ammettere la colpa. Ora è diverso. Se me lo chiederà il partito, in attesa di
accertare la mia innocenza in tribunale, sono pronto a farlo. Intanto, dal 1°
maggio non li percepirò più, ma li accantonerò in attesa della sentenza. Se
alla fine avrò ragione io, però, mi toglierò molti sassolini dalle scarpe». * Alberto Vecchi Bologna è stato consigliere
provinciale e regionale per AN, ora consigliere regionale e coordinatore
provinciale del PDL.
Questa storia dei partiti "personali" o
"carismatici" ogni tanto evocata come un'attenuante o causa della
crisi delle formazioni politiche nate e cresciute nella cosiddetta seconda
Repubblica, e persino del loro cattivo rapporto con il danaro, è sempre meno
convincente. Almeno agli occhi di chi ha conosciuto, seguito e raccontato anche
la cosiddetta prima Repubblica e i partiti che la contrassegnarono. Silvio
Berlusconi, Umberto Bossi, il suo aspirante erede Roberto Maroni, Pier
Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Antonio Di Pietro, sotto certi versi pure Massimo
D'Alema e Pier Luigi Bersani, con i quali si identificano i rispettivi partiti,
avevano i calzoni corti, o dovevano ancora nascere, e già esistevano in Italia
forze politiche a conduzione personale e carismatica. I cui congressi si
svolgevano con maggiore frequenza di adesso, con avvicendamenti di comitati
centrali, consigli nazionali, direzioni, uffici esecutivi, segreterie e
quant'altro, ma le cui redini rimanevano pur sempre in poche, solidissime
mani.Alla guida del Partito Comunista, per esempio, i segretari cambiavano solo
quando ne sopraggiungevano la morte o l'invalidità fisica. Accadde con Palmiro
Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer e Alessandro Natta, prima che
cominciasse con Achille Occhetto, e le edizioni successive al Pci, la serie di
quelli che l'immaginifico, indimenticabile Francesco Cossiga definiva
"zombi". Il Partito Socialista, nel bene e nel male, visse e contò
nel secondo dopoguerra sino a quando camminò sulle gambe |
In testa alla classifica da
cinque anni consecutivi. Ma è un primato che non ha nulla di positivo. Anzi.
L'Italia è ancora una volta maglia nera in tema di giustizia. A sentenziarlo è la Corte europea per i diritti dell'uomo
che, in un rapporto pubblicato dal Consiglio d'Europa, mette ancora una volta
in luce le carenze e le inefficienze del nostro sistema giudiziario. Secondo
la Corte di Strasburgo,
nel 2011 il nostro Paese è stato quello con il maggior numero di sentente inapplicate (2.522 su un
totale di 10.689). Nella maggior parte dei casi, la causa di ciò risiede
nella lentezza della giustizia. Una giustizia "lumaca" che rende
l'Italia un "sorvegliato speciale" in sede europea. Alle spalle del
nostro Paese, nella classifica
2011 degli Stati "inadempienti" stilata a Strasburgo, si colloca la
Turchia con 1.780 casi seguita della Russia con 1.087 casi, dalla Polonia
(924) e dall’Ucraina (819). Nel 2011 l'Italia ha pagato come risarcimento
ai cittadini di cui ha violato i diritti quasi 8 milioni e mezzo di euro, 2,5
in più che nel 2010.
Dal rapporto del Consiglio d'Europa emerge inoltre che è aumentato il numero
di casi, passati da 6 nel 2010 a 23 nel 2011, in cui le autorità italiane
hanno pagato il risarcimento in ritardo. Già nel 2010, la Corte
europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo bacchettò la nostra giustizia,
emettendo una maxi condanna
nei confronti dell’Italia per i ritardi con cui vengono pagati gli indennizzi
legati alla lentezza dei processi. In quell'occasione, i giudici di
Strasburgo adottarono 475 sentenze
che davano ragione ad altrettanti ricorsi presentati da soggetti che hanno
dovuto attendere dai 9 mesi ai quattro anni per incassare il risarcimento
riconosciuto, in base alla legge Pinto. La Corte aveva quindi chiesto
all’Italia di rivedere la legge e di istituire un fondo speciale per pagare
gli indennizzi in tempi ragionevoli. Nel comunicato diffuso dalla Corte
veniva evidenziato che, a fronte di una normativa che fissa in sei mesi il
termine per l’erogazione degli indennizzi,
i 475 ricorrenti hanno dovuto attendere tra i 9 e i 49 mesi e che erano in
attesa di giudizio a Strasburgo oltre 3.900 ricorsi presentati per il
ritardato pagamento degli indennizzi. Dal 2010 a oggi, la macchina della
giustizia italiana non sembra essere ripartita.
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