La ricetta del
manager per lo sviluppo: giustizia certa per le imprese e benefici fiscali sul
welfare
È l'economia secondo
Parisi, in trasferta a Lodi lunedì, subito dopo l'incontro a Villa Certosa con
Silvio Berlusconi. Cena in piazza con Franco Debenedetti, autore di Scegliere i
vincitori, salvare i perdenti, poi la presentazione del libro organizzata da
Lodi liberale in un'aula della biblioteca ristrutturata di fresco da Michele De
Lucchi. All'ingresso, applausi al fondatore di Chili (così recita il cartellino
sul palco dei relatori), poi si parte e l'attenzione sale. Leit-motiv della
serata è un'orgogliosa rivendicazione del liberalismo popolare del 1994 di
Berlusconi, ma non «delle grandi imprese che chiedono di non avere vincoli» né
dell'«Europa, che è liberale ma viene respinta perché fatta da élites». Un
liberalismo di popolo da attualizzare alle nuove frontiere: welfare, famiglie e
privato sociale, concorrenza tra Stato e imprese nell'offrire servizi pubblici.
«C'è una cultura ipocrita, che non prende atto che nel welfare un ruolo
fondamentale ce l'hanno le famiglie con un anziano, un disabile, un
disoccupato. Vogliamo riconoscere a queste famiglie benefici fiscali?». Un po'
la ragione per cui in tanti dicono che le parole di Parisi sono già sentite e
le facce già viste, che gli italiani non sono liberali, il liberalismo non può
attecchire e lui non può farcela. Lui replica che non è la teoria del '94
l'errore, ma ciò in cui è degenerata: «Nel '94 Berlusconi fece passare il
messaggio di un liberalismo non elitario, come libertà per tutti, che si radicò
nella cultura. Adesso mandiamo messaggi troppo confusi e statalisti». Come la
difesa della regolarizzazione dei precari della scuola, che avviene anche nel
centrodestra, o articolo 18 e lavoratori pubblici. O un certo filo renzismo sul
Job Act. Invece, sostiene, «il governo non ha liberalizzato per nulla il
mercato del lavoro: siamo uno dei pochi Paesi europei in cui se un'azienda
vuole licenziare per giusta causa deve andare dal giudice». Gli attacchi a
Renzi non finiscono qui. «La riforma istituzionale non ha coraggio, il coraggio
è porre le questioni in modo semplice. Se invece di cincischiare e rompere con
Berlusconi su una stupidata, perché se sapessimo su cosa hanno rotto... Adesso
avremmo una riforma». Così non pare. E il suo «No» al referendum è ancora più
forte è chiaro.
Nessun commento:
Posta un commento