Di Alessandro Leozappa. Spagna batte Italia. Tra
le economie più colpite dalla crisi finanziaria in Europa, da anni sotto gli
occhi dei mercati e con i dati economici più precari, non tutti i paesi si
muovono all’unisono. In particolare tra Italia e Spagna, paesi a lungo
assimilati, il divario si allarga sempre di più: sembra che le due economie
stiano correndo su due binari diversi. Che cosa è successo? Da quando Mario
Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, pronunciò nel luglio di 2
anni fa il famoso “whatever it takes”, annunciando la volontà della
banca centrale di ricorrere ad ogni mezzo in suo possesso per contrastare la
speculazione sul mercato dei titoli di Stato europei, i tassi di interesse dei
paesi considerati a rischio, quali Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo, sono
scesi continuamente. Il supporto della Banca Centrale ha ridotto il costo del
denaro per i paesi della cosiddetta periferia d’Europa, ma l’andamento dei
tassi degli ultimi mesi e i dati economici accendono un campanello d’allarme.
L’Italia sta rimanendo indietro e, tra i malati d’Europa, appare sempre più in
difficoltà. Il confronto con la Spagna è impietoso. Dall’inizio della discesa
dei tassi della periferia europea, notiamo come quelli sui titoli di Stato
spagnoli, partendo da un livello più elevato, si siano ridotti più velocemente,
tanto da raggiungere quelli italiani e oltrepassarli. Dal gennaio di quest’anno
notiamo come il tasso spagnolo si sia mantenuto sotto a quello italiano, e il
divario
tra i due è aumentato sempre di più. La differenza
tra i due tassi indica quale rendimento i mercati richiedano all’Italia per
prestarle dei soldi, rispetto alla Spagna. Questa differenza è passata
dall’essere di un punto percentuale, o 100 punti base, in favore dell’Italia
durante il 2012, agli attuali oltre 30 punti base in favore della Spagna. La
domanda che sorge spontanea è dunque come abbia fatto la Spagna a conquistare
la fiducia dei mercati meglio del nostro paese? Il primo dato che risponde a
questa domanda, e ne apre altre, è che la Spagna cresce. Dal 2014 la variazione
del prodotto interno lordo spagnolo è tornata a mostrare un segno positivo, e
la crescita per l’anno in corso è stata recentemente rivista al rialzo, al
1,2%, dal Fondo Monetario Internazionale. La situazione italiana è invece
tristemente nota. Il PIL del nostro paese è in contrazione dal ultimo trimestre
del 2011. In favore della Spagna gioca poi un debito pubblico decisamente più
contenuto del nostro. Emerge però che questo debito è aumentato rapidamente
negli ultimi anni. La Spagna ha infatti registrato un importante deficit
durante gli ultimi anni, pari al 10% e 7% del PIL rispettivamente nel 2012 e
2013. Negli stessi anni l’Italia ha diligentemente rispettato il tetto del 3%
del deficit previsto dai trattati europei.
Come ha potuto la Spagna incrementare così tanto
il debito, a causa di un deficit sostenuto, senza incorrere nel veto delle istituzioni
europee e soprattutto senza provocare ondate di vendite sui propri titoli di
Stato e conseguente impennata dei tassi? Recentemente il settimanale inglese The Economist scriveva che la riforma del lavoro varata in
Spagna nel 2012 ha dato alle imprese la possibilità di decidere autonomamente i
salari e le condizioni contrattuali, piuttosto che vincolarsi a contratti
collettivi e ha ridotto i costi di licenziamento. Queste modifiche, concordate
con sindacati e lavoratori, hanno raffreddato la crescita dei salari che aveva
perso ogni legame con l’andamento della produttività. È proprio questa
caratteristica che è mancata, e manca, nelle riforme del lavoro che si sono
susseguite in Italia. Come argomentato dal professor Paolo
Manasse,
docente all’Università di Bologna, l’esclusivo focus delle riforme nostrane
sulla flessibilità in uscita, senza alcun meccanismo che leghi i salari alla
produttività, ha addirittura effetti opposti a quelli auspicati.
Le riforme in Spagna sono state tutt’altro che
miracolose. Il tasso di disoccupazione, seppur in lieve riduzione durante
l’ultimo anno, è al 24%, inferiore in Europa solo a quello greco, e ben oltre i
livelli socialmente accettabili.
È certamente presto per decretare la vittoria
delle politiche avviate in Spagna due anni fa. La fiducia nei mercati e
soprattutto la ripresa del PIL puntano i riflettori su quello che Madrid ha
fatto e l’Italia no. La maniacale ricerca del contenimento del deficit e le
riforme timide e inefficaci mostrano sempre più il segno. Qualora dovesse
ridursi il supporto della banca centrale l’Italia avrà perduto un’occasione
importante per farsi trovare meno vulnerabile alla prossima crisi.
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