Ci sono tanti fattori che remano contro il Presidente
del consiglio Matteo Renzi. E iniziano a essere talmente tanti, che
forse si sta apparecchiando la resa dei conti. L'ultima in ordine di tempo è la
bufera sollevata dalla Cina nei mercati finanziari, che si lega a doppio
filo con le riforme in materia economica che Renzi e il governo devono
partorire in autunno, e che cade sotto il nome di legge di stabilità. Come
spiega Alessandro Sallusti nel suo editoriale sul quotidiano il
Giornale, quello che aspetta Renzi è un autunno rovente, durante il quale
dovrà districarsi fra il sali e scendi dei mercati finanziari, crisi economica,
questione immigrati e numeri risicati per l'approvazione delle riforme. Per non
parlare poi delle spalle scoperte che si ritrova, con un partito che non lo
appoggia più, o almeno non nella sua totalità, nel percorso di governo. È
sempre più evidente come il premier non abbia più al suo seguito un partito
compatto. Ammesso ovviamente che lo abbia mai avuto in passato. Infatti già
dalle scorse settimane Matteo Renzi è a caccia di alleanze, di numeri e di voti
che gli consentano di passare indenne le prove d'autunno. E le sta davvero
cercando ovunque, fra forzisti titubanti e grillini insoddisfatti, per non
parlare dei lupi solitari oscillanti fra le vecchie conoscenze e le nuove
prospettive.
Storia - Come si
suol dire, la storia insegna. Ma fra il dire e il fare, ci sta sempre di mezzo
il mare. Sallusti ricorda che nell'ormai lontano 1960 il primo ministro
della Dc Fernando Tambroni fece quello che sta tentando di fare Renzi
oggi, ovvero di ottenere la fiducia grazie a numero determinante di voti
esterni al partito di appartenenza, e in particolare Tambroni accalappiò i voti
dei missini, gli esponenti del Movimento sociale italiano. Si gridò allo
scandalo per questa strategia, i democristiani di sinistra si ribellarono, i
ministri si dimisero e Tambroni fu costretto a mollare il colpo, abbandonando
l'incarico di governo. La differenza fra quello che successe allora, e quello
che potrebbe succedere oggi, è che nel 1960 saltò solo la poltrona del premier,
mentre oggi potrebbe saltare l'interno partito del premier, vista la fragilità
della compagine democratica. E la sorpresa sta nel fatto che forse per Renzi
una sterzata del genere non sarebbe così male, perché lo metterebbe spalle al
muro e di fronte alla possibilità (obbligata) di fondare il suo tanto agognato
partito della nazione. Senza minoranze insubordinate pronte a mettere sempre il
bastone fra le ruote.
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