martedì 17 luglio 2012

GLI STUDI DI SETTORE SONO SOLO UN COMODO RUBINETTO PER SISTEMARE IL BILANCIO STATALE



Caro Direttore, la proposta di Andrea Tribulini pubblicata dal vostro giornale è senza dubbio di buon senso (si veda “Una misura di buon senso per risolvere il ritardo sugli studi di settore”), e non credo che – con i software moderni – la complicazione di una liquidazione in più possa turbarci più di quello che fanno altre norme. Ciò che non condivido è l’atteggiamento che (tutti) stiamo mostrando, che dimentica un elemento fondamentale: è universalmente noto che gli studi di settore attingono a una base dati storica e, quindi, i dati per la loro compilazione sono da tempo nelle mani dell’Amministrazione. Insomma, ci siamo tutti dimenticando la vera ragione per cui l’Amministrazione ritarda l’emanazione degli studi: sintonizzare il maggiore o minor flusso derivante dagli studi di settore per quadrare le esigenze di bilancio dello Stato. A noi, conoscitori della materia, non si può raccontare che il Fisco ha bisogno di dati per compilare gli studi di settore. Quali dati? Una serie storica statistica. E noi sappiamo bene che il “cervellone” dell’Agenzia non è ancora in grado di fornire i dati delle dichiarazioni del 2010 (altrimenti avremmo già ricevuto tutti gli avvisi bonari). Quindi, è altrettanto ovvio che la base dati statistica di ogni studio di settore si ferma (quando va bene) al secondo o terzo anno precedente.


In ogni caso, qual è il settore produttivo che cambia così radicalmente da un anno con l’altro? O meglio: qual è il settore produttivo che in un anno subisce un mutamento così radicale da modificare la serie storico/statistica? Ci sono mutamenti radicali per colpa della crisi? Se così fosse, non si capisce perché il ricavo richiesto continua ad aumentare, anche per settori che vanno molto male.
Non nascondiamoci dietro a un dito: gli studi di settore sono un comodo rubinetto per sistemare il bilancio dello Stato (formalmente, si intende, perché a sistemarlo sostanzialmente non ci riesce nessuno). La nostra categoria deve pensare in maniera diversa: chiedere con forza che gli studi di settore siano approvati prima dell’inizio del periodo di imposta.
E ciò per diverse ragioni: - se è vero quello che dice l’Amministrazione, nel senso che gli studi devono servire anche dabenchmark per gli imprenditori, allora non mi sarà molto utile un benchmark, un parametro di riferimento, che posso scoprire solo a giochi fatti. Mi sarà molto più utile un parametro che mi dica che cosa il mercato si attende da me; - se aumentiamo i premi agli imprenditori che risultano congrui agli studi, sarebbe lecito aspettarsi da uno Stato serio di conoscere prima il traguardo da raggiungere per accedere al regime premiale; - se gli studi di settore si incardinano maleficamente con il regime delle società di comodo(IRES maggiorata di 10 punti, oltre al resto), sarebbe altrettanto lecito conoscere prima dell’inizio del periodo di imposta quale possa essere il limite sotto il quale non scendere.
Per questi motivi, le ragioni di Andrea Tribuli e di altri seppur autorevoli autori non mi convincono: pubblicare gli studi di settore dopo l’inizio del periodo di imposta è una barbarica patologia e continuare ad avallare (anche indirettamente, senza reagire) questi metodi significa lasciarsi mettere i piedi in testa.
Lo dice gente più in gamba di me: ciò che spaventa gli investitori stranieri sono queste cose, non il livello fiscale. Lo straniero (ma l’imprenditore in genere) teme l’incertezza, non un carico fiscale anche pesante, ma che sia programmabile. Alessandro Cerati Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano

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