Caro
Direttore, la proposta di Andrea Tribulini pubblicata
dal vostro giornale è senza dubbio di buon senso (si veda “Una misura di buon senso per risolvere il ritardo sugli studi di
settore”), e non credo che – con i software moderni – la
complicazione di una liquidazione in più possa
turbarci più di quello che fanno altre norme. Ciò che non condivido è l’atteggiamento che (tutti) stiamo mostrando, che
dimentica un elemento fondamentale: è universalmente noto che gli studi di
settore attingono a una base dati storica e, quindi, i dati per la loro compilazione sono da tempo nelle
mani dell’Amministrazione. Insomma, ci siamo tutti dimenticando la vera ragione per cui l’Amministrazione ritarda
l’emanazione degli studi: sintonizzare il maggiore o minor flusso derivante
dagli studi di settore per quadrare le esigenze di bilancio dello
Stato. A noi, conoscitori della materia, non si può raccontare che il
Fisco ha bisogno di dati per compilare gli studi di settore. Quali dati?
Una serie storica statistica. E noi sappiamo bene che il “cervellone”
dell’Agenzia non è ancora in grado di fornire i dati delle dichiarazioni del
2010 (altrimenti avremmo già ricevuto tutti gli avvisi bonari). Quindi, è
altrettanto ovvio che la base dati statistica di ogni studio di settore si
ferma (quando va bene) al secondo o terzo anno precedente.
In ogni
caso, qual è il settore produttivo che cambia così radicalmente da un anno con l’altro? O meglio:
qual è il settore produttivo che in un anno subisce un mutamento così radicale
da modificare la serie storico/statistica? Ci sono mutamenti radicali per colpa
della crisi? Se così fosse, non si capisce perché il ricavo richiesto continua
ad aumentare, anche per settori che vanno molto male.
Non
nascondiamoci dietro a un dito: gli studi di settore sono un comodo rubinetto per sistemare il bilancio dello
Stato (formalmente, si intende, perché a sistemarlo sostanzialmente non ci
riesce nessuno). La nostra categoria deve pensare in maniera diversa: chiedere
con forza che gli studi di settore siano approvati prima dell’inizio del periodo di imposta.
E ciò per
diverse ragioni: - se è vero quello che dice l’Amministrazione, nel senso che
gli studi devono servire anche dabenchmark per
gli imprenditori, allora non mi sarà molto utile un benchmark, un parametro di riferimento, che posso
scoprire solo a giochi fatti. Mi sarà molto più utile un parametro che mi
dica che cosa il mercato si attende da me; - se aumentiamo i
premi agli imprenditori che risultano congrui agli studi, sarebbe lecito
aspettarsi da uno Stato serio di conoscere prima il traguardo da
raggiungere per accedere al regime premiale; - se gli studi di settore si incardinano
maleficamente con il regime delle società di comodo(IRES
maggiorata di 10 punti, oltre al resto), sarebbe altrettanto lecito conoscere
prima dell’inizio del periodo di imposta quale possa essere il limite sotto il
quale non scendere.
Per questi
motivi, le ragioni di Andrea Tribuli e di altri seppur autorevoli autori non mi convincono: pubblicare gli studi di settore dopo
l’inizio del periodo di imposta è una barbarica patologia e continuare ad
avallare (anche indirettamente, senza reagire) questi metodi significa
lasciarsi mettere i piedi in testa.
Lo dice gente più in gamba di me: ciò che spaventa gli investitori stranieri sono queste cose, non il livello fiscale. Lo straniero (ma l’imprenditore in genere) teme l’incertezza, non un carico fiscale anche pesante, ma che sia programmabile. Alessandro Cerati Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano
Lo dice gente più in gamba di me: ciò che spaventa gli investitori stranieri sono queste cose, non il livello fiscale. Lo straniero (ma l’imprenditore in genere) teme l’incertezza, non un carico fiscale anche pesante, ma che sia programmabile. Alessandro Cerati Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano
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