Arturo Diaconale Prima l'Expo, ora il Mose. Così
riparte la linea del “più galera per tutti”. A rilanciarla con l'antico vigore
è il redivivo Antonio Di Pietro, del tutto inconsapevole che la sua rivoluzione
giudiziaria degli anni '90 si è risolta nel fallimento testimoniato dai
successivi vent'anni di nuovi e più clamorosi scandali. A sostenerla
all'insegna del “cacciamoli tutti” (quelli delle larghe intese”) è Beppe
Grillo, alla ricerca di una facile rivalsa sulla sconfitta elettorale alle
europee. E ad avallarla, a nome del ‘partito’ dei media virtuosi di proprietà
di banche, finanzieri ed imprenditori che usano i mezzi d'informazione per
tutelare i propri interessi, è il fustigatore principe della stampa nazionale
Gian Antonio Stella, che invoca la galera a tutto spiano ricordando
significativamente che solo lo 0,4 per cento dei detenuti si trova dietro le
sbarre per reati economici e fiscali, tra cui la concussione e la corruzione. Ma
la soluzione del tangentismo nazionale passa sul serio attraverso
l'allargamento delle porte delle carceri? Basta una nuova e più rigorosa legge
anticorruzione, destinata ad aumentare le pene per i singoli colpevoli, a
dipanare la matassa del malaffare pubblico e privato? E' sufficiente caricare
di nuove competenze il Commissario Raffaele Cantone e creare la super-Autority
destinata a controllare le altre Autority, le Amministrazioni locali, le
Procure e quant'altro per estirpare il cancro che deturpa l'immagine del Paese
e fiacca la sua economia? Ciò che i fautori del “più galera per tutti” chiedono
è semplicemente di seguire la strada aperta da Mani Pulite. Cioè quella della
sola risposta giudiziaria ad un fenomeno che non riguarda solo la
responsabilità personale delle persone ma che dipende soprattutto dai difetti
genetici e dalla distorsione progressiva delle strutture istituzionali ed
amministrative dello Stato.
La risposta giudiziaria al
malaffare e alla corruzione può servire ( ma l'esperienza ha dimostrato il
contrario) a curare il sintomo. Ma lascia intatte le cause più profonde della
malattia, facendo in modo che il morbo rispunti nel tempo in maniera diversa e
più virulenta di prima. Non a caso il Procuratore di
Venezia Carlo Nordio ha
rilevato che il “caso Mose” nasce dall'intreccio di norme e competenze che,
complicando qualsiasi procedura, rendono ogni snodo della lunghissima filiera
dei grandi lavori un potenziale centro di metastasi corruttive.
Ma il virtuoso
moralizzatore Stella non ha riportato una sola parola di Nordio nel suo
fluviale servizio sul Corriere della Sera. E da Grillo a Di Pietro, fino ai
rappresentanti dello stesso Governo e di qualsiasi forza politica, nessuno ha
raccolto una indicazione che spiega come la strada giudiziaria, pur
indispensabile, non possa essere la sola da seguire per risolvere il problema.
Servono le riforme. E
dirlo non è benaltrismo ma solo consapevolezza che se insieme alla nuova legge
sull'anticorruzione non si vara una nuova normativa semplificatrice degli
appalti - e non si accorcia drasticamente la filiera delle competenze tra
autorità nazionali e le infinite articolazioni delle amministrazioni locali -
non si esce in alcun modo dal budello oscuro in cui vent'anni di giustizialismo
ottuso e strumentale ci ha cacciato.
Strumentale? Certo,
assolutamente strumentale. Perché non c'è bisogno di essere dei geni illuminati
per capire che il malaffare non è solo frutto della scellerataggine degli
uomini ma è favorito e moltiplicato da un sistema drammaticamente ed
irrimediabilmente distorto. E se si capisce questa banale verità, non si può
non sospettare che il giustizialismo ottuso sia servito e possa continuare a
servire solo per chi se ne serve, per fare meglio i propri affari sulla pelle
dei normali cittadini.
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