Negli ultimi anni, oltre
alla crisi economica, il mondo ha dovuto affrontare anche il problema emergente
dell’estremismo islamico
e, per confermare ciò, basta dare un’occhiata ai numeri sempre più crescenti
degli attacchi terroristici
nel mondo.
Dal 2011, con la comparsa
sulla scena mondiale dell’ISIS,
il numero delle vittime degli attacchi di fattrice islamica è nettamente
cresciuto, assieme alla quota di Musulmani
nel terrorismo mondiale che è sempre più in costante avvicinamento al 100%.
Nel 2013, secondo il
Dipartimento di Stato Statunitense, un totale di 9.707 attacchi di origine terrorista è avvenuto in tutto
il mondo, provocando più di 17.800 morti e più di 32.500 feriti. In aggiunta,
più di 2.990 persone sono scomparse o sono state prese in ostaggio. Le
informazioni riguardo i perpetratori sono state riportate, dal materiale di
base, per il 32% degli attacchi terroristi nel 2013.
E di questo 32%, solo tre
gruppi terroristici musulmani, i Talebani, ISIS e Boko Haram, sono stati ritenuti responsabili di
5.655 morti, all’incirca del 31.76 percento. Ciò vuol dire che della prima percentuale
la stragrande maggioranza sono state perpetrate da soli tre gruppi terroristici, ossia più
del 50% che esiste in questo mondo sempre più turbolento.
A questo punto sembrerebbe
che non ci sia un singolo Paese dove i musulmani non possano innalzare le
proprie bandiere, invece no! Esiste uno Stato abbastanza singolare, non uniforme al pietismo
che oramai prevale sempre di più nel continente americano ed europeo, dove non
è stato finora perpetrato un attacco
terroristico sul proprio suolo.
Il nome di questo Paese è
il Giappone.
Ovviamente, si penserà che
il Giappone ha raggiunto questo risultato attraverso politiche d’integrazione
super efficaci, attraverso l’utilizzo delle più avanzate tecnologie ed
assegnando miliardi di yen nella costruzione di centinaia di moschee e di
scuole islamiche in tutto il territorio nazionale, vietando il maiale nei
luoghi pubblici, introducendo ore separate per maschi e femmine nelle piscine,
con i dottori maschili che non osano toccare i genitali delle loro pazienti, le
donne musulmane che ottengono un immenso aiuto sociale ogni volta che hanno un
figlio, i tribunali della Sharia introdotti nel sistema giudiziario giapponese
ed, infine, il Corano che viene considerato come un testo sacro.
Niente di tutto questo. La
soluzione a tale rompicapo è tanto semplice, quanto efficace: il Giappone è semplicemente chiuso ai
musulmani, non nel senso che sono banditi, ma che il numero di
permessi dati alle persone provenienti dai Paesi islamici è molto basso.
Ottenere un visto di lavoro non è facile per chi professa la religione di
Maometto, anche se sono fisici, ingegneri e manager mandati da compagnie
straniere che sono attive nella regione.
Come risultato, il
Giappone è un “Paese senza
musulmani”.
Ufficialmente il Giappone
vieta di esortare le persone ad adottare la religione dell’Islam, e qualsiasi
musulmano che incoraggi ciò è visto come proselite di una cultura straniera indesiderabile.
I
promotori, per l’appunto,
che sono troppo attivi rischiano la deportazione e, qualche volta, dure condanne di carcere.
La lingua arabe è
insegnata in pochissimi istituti accademici: se ne può trovare, infatti,
soltanto uno, l’Istituto Arabo Islamico a Tokyo. Inoltre l’università
internazionale, sempre nella Capitale, non
offre corsi di arabo. Importare il Corano in Arabo è
praticamente impossibile, ed è permesso solo la versione adattata in
Giapponese.
Fino a poco tempo fa,
c’erano solo due moschee in Giappone: la Tokyo Jama Masjid e la moschea di
Kobe. Ora, il numero totale di siti di preghiera è contato in circa trenta
moschee a piano singolo ed un centinaio di stanze d’appartamento stanziati per
le preghiere, e la società giapponese si aspetta, appunto, che tali persone
preghino nelle loro case: non esiste, infatti, alcuna preghiera collettiva
nelle strade o nelle piazze, e chi lo fa può ottenere delle multe molto
“salate” o, in quei casi in cui la polizia giapponese ritiene seri, espellere
dal Paese i partecipanti.
Dal punto di vista
lavorativo, le aziende giapponesi in cerca di lavoratori stranieri fanno
espressamente notare che non
sono interessati ai musulmani. Non esiste alcuna traccia di
Sharia, ed il cibo Halal è estremamente difficile da trovare.
La popolazione, in
generale, tende a percepire l’Islam come una “religione strana e pericolosa” che un vero
cittadino giapponese dovrebbe evitare, e gli omicidi avvenuti ad inizio anno
dei due connazionali Haruna Yukawa and Kenji Goto per mano dell’ISIS non ha
certamente migliorato la situazione.
La cosa più interessante,
di tutto ciò, e che i giapponesi non si sentono in colpa per un approccio così
“discriminatorio” all’Islam, e che non dovrebbero chiedere scusa ad alcuno per
il modo negativo in cui percepiscono tale religione. Certamente fanno trattati
economici con gli arabi per il gas ed il petrolio, questo sì, e mantengono
buone relazioni con gli esportatori medesimi, ma non con l’islam, e neanche con
l’immigrazione musulmana. E, cosa strana, i musulmani in Giappone non provocano
rivolte, non marchiano i giapponesi come “razzisti”, non bruciano macchine,
spaccano finestre, tagliano le teste dei soldati per essere stati in
Afghanistan, Iraq o in qualunque altro posto sulla Terra – e non c’è stato un
singolo giapponese vittima di un attacco terrorista sul proprio suolo nazionale
negli ultimi trent’anni.
Che l’Europa, attanagliata
non solo dell’estremismo islamico ma anche dell’immigrazione selvaggia, debba
prendere da esempio il modello giapponese per trattare direttamente il
problema? Chissà.
Nessun commento:
Posta un commento