Non basterà il ventilatore
delle sciocchezze, per rendere meno appiccicosa la calda estate bancaria. Non
basterà maledire le regole europee. Oltre a essere ragionevoli, sono note dal
2013 e sono state recepite in Italia, con voto del Parlamento, nel novembre del
2015. Cos’è, non le avevano lette o non le avevano capite? Non basterà
sostenere che il problema sono le banche degli altri, perché quelli, appunto,
sono problemi di altri. Li affronteranno, loro. I nostri non sono sfortunati
eventi, ma il venire al pettine di problemi antichi. Colpevolmente lasciati a
marinare. Se le banche italiane hanno crediti sofferenti per il triplo della
media europea non lo si deve solo alla crisi. Pesa, eccome, ma non basta: lo si
deve a una gestione camarillesca di tanto credito. E’ vero che le Sparkasse
tedesche diedero soldi alle aziende che volevano sostenere, anche a costo di
scassare i conti, che si scassarono, ma è ben diverso dal dare soldi all’amico
e all’amico dell’amico, per acquistare non mercato, ma mercanteggiamenti. Se
hanno poco capitale, le banche italiane, è anche perché le Fondazioni, che furono inventate come azioniste, se lo son
giocato in socialità e clientele, amministrate da gente variamente nominata
dalla classe politica di campanile e contrada. E perché gli azionisti,
assai all’italiana, godono a fare i padroni ma riluttano a rischiare i propri
soldi. E perché ne hanno raccolto molto, vendendo ai clienti roba che a quelli
non doveva essere venduta, ma poi lo usavano non per consolidare la banca e
migliorarne i conti, ma per protrarre l’andazzo e lasciare immutati costi fissi
troppo alti. E che ora difendono, quasi che essere improduttivi sia un diritto .Quando
immettere capitale pubblico era
possibile non lo si fece. Non piaceva ai governi, cui sarebbe toccato spiegare
quel che adesso tocca spiegare: perché i soldi del contribuente devono andare a
salvare le banche? Ma non piaceva neanche ai bancari che si credevano
banchieri, poco disponibili ad accettare intromissioni in quel che ritenevano
essere la loro autonomia amministrativa. Si rispetti il mercato, dicevano. Ecco, appunto, nel mercato si può anche
fallire. Ma se le colpe fossero tutte in banca, basterebbe fustigarle. Non
è così. Le banche capaci di ragionare come parte di un “sistema” sono servite a
noi, e
sono state utilizzate
dalla Banca centrale europea, per farcirle di titoli del debito pubblico. S’è
chiuso un occhio, posto che l’altro era cieco, perché serviva aprissero il
portafoglio. Come un padre alcolizzato non è, per la prole, un gran pulpito di
rettitudine, così uno Stato indebitato oltre il limite non è una gran sede per
predicare la prudenza di bilancio. Accadde nel mentre si approvavano le norme
europee, il cui scopo è evitare sia che le banche siano salvate con i soldi dei
contribuenti, sia che il rischio dei loro bilanci diventi rischio per quello
statale, praticavamo una condotta capace di rendere i rischi del debito
pubblico rischi bancari, chiedendo loro quel che non poteva (e non doveva) più
essere chiesto al contribuente. Abbiamo girato la frittata facendola volare in
aria. Solo che anziché in padella c’è planata sulla testa. Il futuro è di poche
banche continentali. Il presente è zavorrato da tante banche dialettali Per tirarne fuori le gambe dobbiamo smetterla
di illuderci e accettare che chi sbaglia paga. Qualche beota può credere che
tutto stia nel convincere quei cattivoni di Bruxelles, ma per uscirne dobbiamo
assolutamente evitare che dopo le balle si diffonda il panico. La garanzia
statale, quindi dei nostri soldi, sarà necessaria. Ma serva cambiare, non a
conservare. Cambiare anche il modo di fare banca, nonché chi amministra quelle
che avranno bisogno della stampella. Recidere le colleganze localistiche.
Tranciare i collegamenti con la politica. E’ quest’ultima a doverne rispondere,
davanti agli elettori. Di errori ne ha commessi molti. Siamo perfettamente in
grado di farcela. Ma smettiamola di prenderci in giro, con l’aggravante di
crederci. Davide Giacalone
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