Sembra passato un secolo, invece sono trascorsi quattro anni e,
nonostante le pagine dei giornali dell’epoca si siano un po’ ingiallite, le
dichiarazioni sull’intervento militare in Libia stanno scritte lì, nero su
bianco ed è impossibile rimuoverle. Frasi nette, sicure come la traiettoria di
un colpo di fucile, ma purtroppo sparate a casaccio, nella presunzione di
conoscere ciò che stava accadendo, mentre invece i presunti esperti non
conoscevano quasi nulla di ciò che si stava mettendo in movimento. Era l’inverno del 2011, ma nonostante
fossimo appena a febbraio, per commentatori e politici era già primavera e che
primavera, niente po’ po’ di meno che quella araba. Le folle si rivoltavano
ai dittatori in Egitto e anche in Tunisia ed onorevoli e giornalisti
applaudivano spellandosi le mani, salutando il cambiamento, la democrazia, il
trionfo della civiltà. Bisogna rileggerle quelle frasi, perché dimostrano la
miopia di chi da tempo si è eretto a guida del Paese, ad autorità morale e
politica in grado di indicare la direzione di marcia degli italiani. All’epoca
c’era chi invitava alla prudenza, suggerendo di non abbattere regimi che pur
non avendo fatto del rispetto dei diritti umani il loro dogma per lo meno
avevano evitato la deriva verso l’integralismo. Gli «esperti» liquidavano le
esortazioni alla cautela con fastidio, spiegando in particolare per quel che
riguarda la Libia che il pericolo non esisteva, in quanto da quelle parti i
tagliagole islamici non c’erano, perché a dominare erano le tribù. Uno come Romano Prodi, che a Gheddafi non
aveva baciato l’anello ma quasi, scambiando la bufera che si stava preparando
per un refolo suggeriva addirittura di legare i paesi della Primavera araba
all’Europa, non per annetterli al Vecchio continente ma per farci affari.
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