Uno smottamento di terreno
ha interessato parte del giardino della Casa di Severus. Nel 2008, per un
incidente simile, il Pd chiese la testa del ministro dei Beni Culturali
È la classica buccia di
banana sulla quale, prima o poi, finiscono di scivolare i ministri dei Beni
Culturali nostrani. Quando nello sterminato sito archeologico di Pompei si verifica
un crollo, complice il maltempo, gli annunci e i proclami di imminenti (se non
addirittura in fieri), magnifici e superfinanziati grandi progetti di
riqualificazione, si sgonfiano come un soufflè mal riuscito e gli entusiasmi
sembrano sbriciolarsi assieme alle antiche pietre. L’impressione generale è che
alla politica del fare manchi sempre un tassello per partire. Intanto, però,
Giove Pluvio fa danni. Prevale la sfiducia e un senso di impotenza ma i
malumori, di solito, durano poco. E si ricomincia come prima. Anche ieri si è
registrato un crollo a causa delle forti piogge. Uno smottamento di terreno ha
interessato parte del giardino della Casa di Severus, lungo il costone roccioso
meridionale. Una parte del muro di contenimento del giardino è collassata.
«L’area interessata dallo smottamento è già parte del programma di messa in
sicurezza della Regio VIII previsto dal Grande Progetto Pompei» si è affrettata
a spiegare la Soprintendenza. Fine delle comunicazioni. Il ministro dei Beni
Culturali Franceschini non ha proferito parola.
Non andò così, però, nel
novembre di cinque anni fa quando alcune infiltrazioni d’acqua fecero
tracollare la Schola Armaturarum lungo la via dell’Abbondanza. Quella volta
fulmini e saette colpirono Sandro Bondi, del Pdl, il ministro della Cultura
dell’allora governo Berlusconi. Contro di lui si scagliarono circa duecento
parlamentari del Pd e dell’Italia dei Valori, Udc (appoggiati sotto sotto dai
finiani del Fli). I
democrat si accanirono
contro Bondi invocando le dimissioni e, nel caso Bondi avesse fatto resistenza,
la mozione di sfiducia. Inutilmente il ministro tentò di difendersi annunciando
un piano straordinario per tutelare gli scavi. Ebbene tra i più accesi
sostenitori della «linea dura» contro il ministro Bondi c’era l’allora
presidente del Pd Dario Franceschini che oggi occupa quella stessa poltrona.
«Ho chiesto che il governo venga urgentemente a riferire in Aula sui vergognosi
fatti di Pompei- tuonò Franceschini - Sandro Bondi si dimetta oppure il Pd
presenterà una mozione di sfiducia. I ministri restano in carica se hanno la
maggioranza, Bondi prenda atto che la maggioranza dei gruppi ha chiesto un
gesto di responsabilità». Insomma per Franceschini un crollo a Pompei
giustificava la cacciata di un ministro «con le buone e con le cattive». È
evidente che oggi non la pensi più così. Anzi non la pensava così neanche nel
marzo 2014 quando a Pompei si verificarono tre crolli in tre giorni (sabato 1,
domenica 2, lunedì 3). A cui seguì, il 20 di quel piovosissimo marzo, un altro
cedimento di mura in un’area «interessata da interventi di messa in sicurezza
nell’ambito del Grande progetto Pompei». Franceschini certo non si recò alla
Camera per autodimettersi e a nessuno venne in mente di farlo. Del resto lo stesso
trattamento era stato riservato anche al predecessore di Franceschini, cioè
Massimo Bray, ministro del governo Letta. Nuovi crolli nel dicembre 2013
interesserano una bottega di via Stabiana e una parte di intonaco della Fontana
piccola. Inoltre una decina di giorni prima si erano aperti tratti delle mura
delle Terme. Com’era prevedibile nessun deputato del Pd ha chiesto la mozione
di sfiducia per Bray.
Bondi fu aspramente
attaccato anche da altri ex ministri culturali del Pd e cioè gli onorevoli
Walter Veltroni e Giovanna Melandri. Veltroni nel suo intervento in aula tuonò
il suo j’accuse: «Si è chiuso un ciclo. Bisogna spegnere la luce? Si è già
spenta. Facciamo in modo che il Paese esca da questo buio. La cultura non si
mangia, ha detto un esponente del suo governo, è vero, la cultura si respira,
come l’aria. In tempi duri e difficili quando si doveva fare la misura per
l’Europa le spese per la cultura sono raddoppiate e i governi di centrosinistra
hanno sempre aumentato le risorse. Le spese per la cultura sono anticicliche,
creano occupazione e turismo. Pompei è il gioiello di tutto questo». «Il crollo
di Pompei è solo l'ultimo atto della lunga sequela di fallimenti collezionati
dal ministro Bondi».
La Melandri puntò il dito
anche contro il Bondi privato: «Forse troppo assorbito dal ruolo di
coordinatore del partito dell'amore, definizione quanto mai azzeccata alla luce
della vita privata del suo leader, Bondi ha trascurato il gravoso impegno
istituzionale - ironizzava il deputato piddino - Una gestione fallimentare, il
cui triste esito non poteva che essere il più basso livello di risorse
destinate alle politiche culturali. Il tempo degli editoriali, caro ministro, è
finito, rassegni le dimissioni. Subito. Anzi subitissimo». Bondi a un certo
punto cominciò a parlare di «incattivimento politico nei suoi confronti». Gli
strali arrivavano da tutte le parti.
Non ci andò tenero neanche
l’allora portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando (attuale sindaco di
Palermo): «Il Paese viene fatto a pezzi dal governo del dolce far niente e il
crollo della Casa dei Gladiatori ne è la prova triste e tangibile. Non si
capisce come Bondi, e anche Brunetta, caschino dalle nuvole, scaricando su
altri ogni responsabilità dell'accaduto. Abbiano invece l'onesta di farsi da
parte». Per il deputato Udc Enzo Carra la vicenda di Pompei appariva come «la
metafora di una nazione e la carta d'identità del governo» aggiungendo di non
cercare mai un caprio espiatorio «perché in questo paese è difficile e forse
sono troppi». Contro Bondi anche Granata del Fli, l’ultima creatura di
Gianfranco Fini. Ipse dixit: «Riguardo il crollo della Casa dei gladiatori di
Pompei, un partito serio deve chiedere le dimissioni di Bondi perché non può
gestire il più straordinario patrimonio culturale del pianeta con la sua
attenzione a non disturbare il grande manovratore». Invano Bondi ribadiva che
«il crollo della Domus dei Gladiatori non fosse colpa delle risorse scarse ma
del modo in cui tali risorse sono gestite». E visto che neanche la Soprintendenza
aveva presagito il crollo «non si potevano escludere altri crolli».
Quel braccio di ferro
sfiancò il ministro Bondi. Quando si arrivò alla mozione di sfiducia ormai i
giochi erano fatti e non si poteva più tornare indietro. Nemmeno la vittoria
nel voto parlamentare convinse Bondi a rimanere in via del Collegio Romano. E
così inviò al premier Berlusconi la lettera di dimissioni.
Natalia Poggi
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