PER QUESTA MANOVRA AVREBBE TIRATO LE ORECCHIE A BERLUSCONI POI AVREBBE VOTATO SI. DI FRANCESCO DAMATO
Nel primo anniversario della sua morte mi chiedo come Francesco Cossiga avrebbe reagito, di quali e quanto ruvidi giudizi sarebbe stato capace, di quali e quanto sarcastici consigli o moniti avrebbe sommerso l'amico Silvio Berlusconi in questo che ha tutto il sapore amaro di uno sfortunato epilogo della sua lunga avventura politica. Che non mi sembra francamente destinata, dopo il varo delle due manovre finanziarie di questa dannata estate, a superare l'ormai declinante legislatura, per quanto il Cavaliere non abbia escluso la "necessità" di ricandidarsi anche per la prossima. Mi chiedo ancora come avrebbe votato l'ex presidente della Repubblica nella conversione del decreto legge di imminente esame al Senato. Probabilmente a favore, magari turandosi il naso, anche senza le profonde modifiche auspicate da tante parti, di opposizione e di maggioranza, e per spirito semplicemente patriottico. Aggettivo, quest'ultimo, che in vita non gli aveva mai dato fastidio, senza bisogno di attenderne la rivalutazione con il ripristino da parte del suo secondo successore al Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi, delle parate militari sacrificate fra una genuflessione e l'altra da Oscar Luigi Scalfaro per malinteso senso di austerità. Peggio di questa pur perversa manovra fiscale, che scambia per "ricco" il ceto medio e lo spenna come un tacchino senza riuscire peraltro a migliorare di un centesimo di euro le condizioni dei poveri, quelli veri, non quelli finti che viaggiano in Porsche, come scrive Mario Sechi, e dichiarano redditi da esonero fiscale; peggio, dicevo, di questa pur perversa manovra fiscale sarebbe una sua bocciatura, o solo un suo ritardo nelle secche parlamentari. Si aprirerebbero in tal caso altre praterie agli speculatori nei sempre più voraci mercati finanziari. Per non parlare delle complicazioni che deriverebbero nei rapporti con la Banca Centrale e, più in generale, con l'Unione Europea. Alle cui
indicazioni o prescrizioni, peraltro, a causa soprattutto delle forti e minacciose resistenze opposte dalla Lega, il governo non si è attenuto del tutto, continuando per esempio a tollerare e finanziare quel lusso sempre più insopportabile e oneroso delle pensioni di anzianità, come si chiamano con penoso eufemismo le pensioni premature. Che vengono erogate e percepite ben prima dell'età media adottata in altri paesi europei dove non governano degli aguzzini, come mostrano di credere i sindacati italiani e i partiti che se ne fanno dettare la linea, ma persone e forze politiche semplicemente più assennate e responsabili. Dell'assai bizzarro e oneroso sistema pensionistico italiano Cossiga era ben consapevole per essersene seriamente occupato e preoccupato già quando era presidente della Repubblica, facendosene spiegare i perversi meccanismi dagli allora ministri del Tesoro Giuliano Amato e Guido Carli. Grande fu pertanto la sua soddisfazione di senatore durante la legislatura 2001-2006, quando l'allora ministro leghista del Lavoro Roberto Maroni non si lasciò intimidire dalle proteste sindacali e fissò il famoso "scalone" per ritardare le pensioni premature, con ciò correggendo coraggiosamente anche la linea adottata nel 1994 dal suo partito. Che aveva avviato lo sganciamento dal primo governo di Silvio Berlusconi, provocandone infine la caduta a meno di nove mesi dalla nascita, con una dura contestazione della riforma pensionistica messa in cantiere dall'allora ministro del Tesoro Lamberto Dini. Era stata, quella, una delle imprese che avevano procurato alla Lega da parte di un compiaciuto Massimo D'Alema, allora segretario del Pds-ex Pci, la definizione di "costola della sinistra". Sono passati da allora diciassette anni e la Lega è tornata la stessa, dimenticando anche i 10 miliardi di euro - dico dieci - costati al bilancio dello Stato, e quindi al debito pubblico, la decisione imposta dalla sinistra massimalista all'ultimo governo Prodi di sostituire lo "scalone" di Maroni con dispendiosissimi "scalini". Cossiga questa storia alla Lega non gliela avrebbe sicuramente perdonata, per quanta indulgenza avesse spesso mostrato verso il Carroccio, avendone forse apprezzato nel lontano 1992 il solitario tentativo, organizzato in particolare da Gianfranco Miglio, di rieleggerlo presidente della Repubblica. Cosa alla quale egli segretamente, ma non troppo, teneva moltissimo sia perché a 64 anni neppure compiuti non si sentiva ancora pensionabile sia perché, con un corposo messaggio inviato l'anno prima alle Camere, si era praticamente proposto come garante di una grande riforma costituzionale. Alla cui approvazione - aveva spiegato ai politici con i quali si sentiva più in confidenza - egli si sarebbe dimesso da capo dello Stato per consentire l'immediata elezione del successore con il nuovo, prevedibile, da lui auspicato metodo diretto, da parte dei cittadini. Mi chiedo infine se da presidente della Repubblica anche Cossiga, come Giorgio Napolitano in questa rovente estate politica, avrebbe aiutato il governo Berlusconi a varare una doppia e pesante manovra finanziaria senza condividerne tutti gli aspetti. Penso di sì. Così diverse per radici politiche e per carattere, le figure dei due presidenti risultano in realtà molto uguali. All'uno e all'altro è toccato, per diaboliche circostanze e forte senso istituzionale, il compito di difendere i governi dalle turbolenze dei propri partiti di origine o di riferimento. Al democristiano Cossiga toccò farlo per due anni, dal 1985 al 1987, con l'amico Bettino Craxi, proteggendolo dagli sgambetti e dalle insofferenze dell'alleato Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Al post-comunista Napolitano è toccato farlo con Berlusconi, proteggendolo in qualche modo dagli assalti all'arma bianca dei suoi ex compagni di partito e di certa magistratura. Anche se il Cavaliere, a dire il vero, non sempre ha mostrato di rendersene ben conto, prendendosela per esempio anche con il Colle per la bocciatura del suo scudo processuale - chiamato lodo Alfano - da parte della dirimpettaia Corte Costituzionale. La cui sentenza, in realtà, più ancora di Palazzo Chigi aveva disatteso il Quirinale, dove la legge era stata promulgata con rapida ed esplicita motivazione, fra le proteste delle opposizioni più scalmanate. Francesco Damato
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