Dove andremo a finire? E’ il quesito che credo molti di noi si siano posti di fronte ad una realtà contemporanea che sta mettendo in discussione ogni certezza sul fronte economico, politico e sociale che il Novecento ci aveva abituato a considerare come monolitico fondamento del nostro vivere. Chi poteva pensare che anche gli Usa rischiassero un default economico dello Stato? Forse coloro che nell’era clintoniana del dopo Muro di Berlino truccarono il motore del capitalismo con il turbo di un'economia finanziaria alimentata da bolle speculative come i mutui subprime; coloro che crearono una società di «uomini consumer» indebitati dalle carte di credito potevano pensare che i loro desiderata avrebbero compromesso le stesse sorti dell’Occidente? Purtroppo, con il senno di poi, è facile intuire che il deragliamento del treno della finanza dai binari dell’economia abbia causato un effetto domino che dalla crisi dei mutui abbia coinvolto i mercati per poi gravare sugli Stati. Non ci serve un guru dell’economia per dirci ciò che, oggi, stiamo vivendo sulla nostra pelle. Il mercato ha bisogno dello Stato e viceversa, ma questi due soggetti, molto spesso, parlano due lingue differenti. L’anarchia degli operatori economici, che mette in primo piano la mera ricerca dell'interesse individuale, spesso non coincide con le istanze della democrazia e del consenso popolare di cui si alimentano le nazioni del mondo. Tutto ciò crea un vulnus che è foriero di crisi che possono mettere a dura prova l’elemento fondante dell’Occidente: la pace sociale. Già oggi stiamo avvertendo le prime avvisaglie di questa situazione con un tasso crescente di antipolitica nei popoli. Pensate ai greci, a quanti di loro, in questo momento, subiscono il decurtamento dei loro stipendi, dei servizi pubblici in virtù di una tenuta dei conti che sappiamo servirà loro solo a garantire un un morbido default dilazionato nel tempo; quale futuro potrà offrire la loro terra se non quello di una radicale cambiamento degli stili di vita e di
un'economia fondata sul modello socialista, in cui il pubblico è stato la fonte principale di occupazione? E che dire della Spagna, con un tasso di disoccupazione alle stelle ed una economia esposta ai venti della crisi, che ha costretto Zapatero alle elezioni anticipate, decretando, quindi, il fallimento delle politiche economiche di una sinistra ispanica che ha pensato all’affermazione dei diritti civili in chiave anticattolica mentre si infoltiva il corpo numerico degli indignados senza lavoro provenienti dalla sua stessa base; e così, sempre rimanendo in zona euro, non si può fare a meno di menzionare la situazione drammatica dei conti pubblici dell’Irlanda e del Portogallo. Anche Obama non canta vittoria, la sua politica economica è fallita e gli Usa navigano a vista attendendo le prossime elezioni presidenziali. Il nostro Paese, fino ad ora, è riuscito nell’impresa di tenere i conti in regola; abbiamo mantenuto la pace sociale pensando che la priorità, nel momento più acuto della crisi, fosse quella di concentrare gli sforzi economici sugli ammortizzatori sociali, garantendo, poi, il varo di una manovra finanziaria volta al pareggio di bilancio.
In questi anni Giulio Tremonti, maestro di rigore nei conti pubblici, ha difeso il sistema-Paese nella sua totalità, all’insegna del «difendiamo quel che abbiamo», ma il problema vero è che il nostro stesso sistema socio-economico, così come è stato impostato durante la Prima Repubbli-ca, rischia di compromettere la coesione sociale, poiché ha in sé molte contraddizioni, privilegi immotivati ed ingiustizie, in particolare ai danni delle giovani generazioni: esse pagano il prezzo degli elevati standard di vita che i loro padri hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Non pos-siamo non ricordarci, ad esempio, che il nostro Stato sociale, che offre servizi di eccellenza come nel settore sanitario, si è strutturato con la rivoluzione massimalista dei fasci, che ha generato statali-smo e corporazioni durante il Ventennio e che, sin dalla nascita della Repubblica, ha aumentato il suo onere economico come compromesso tra l’utopia marxista e l’economia di mercato, dando sfogo, oltre alla pervasività del Pubblico in ambito sociale ed economico, anche ai più disparati privilegi quali, ad esempio, le pensioni d’oro o quelle baby che, oggi, noi tutti paghiamo.
Tutto questo fardello ha prodotto una società cristallizzata, con un debito pubblico che obbliga a politiche virtuose e non solo di gestione dei conti - anche perché le speculazioni finanziarie di questi giorni ci insegnano che, se da una parte possiamo essere i primi della classe in rigore, dall'altra ciò non ci esenta dal subire i crolli quotidiani della nostra Borsa e l’inasprimento dello spread sui titoli del nostro Belpaese.
Serve un quid in più, c’è bisogno di lanciare il cuore oltre l’ostacolo per poter dare uno slancio all’economia del nostro Paese e Silvio Berlusconi è l’unico in grado di poterlo fare. Un presidente imprenditore è l’unica via per gestire l’impresa Italia in un tempo in cui nel mondo tutto può accadere sul piano economico, politico e sociale. Se Tremonti, oggi, è indebolito dalle sue incaute vicende, Ber-lusconi ha l’autorevolezza per dare un segnale importante ai mercati e dare avvio ad una fase di mag-giore crescita del Paese.
L’idea di un governo tecnico, invece, non è altro che un tentativo delle lobbies conservatrici, e soprattutto delle opposizioni, di non accollarsi la responsabilità di riformare il nostro sistema: è il metodo migliore per mettere le mani nelle tasche degli italiani conservando lo status quo. Silvio Berlusconi, quindi, è l’unica scelta per il nostro Paese, e non è un caso che la finanza globale abbia preso di mira l’Italia dopo che il centrodestra ha perso le elezioni amministrative. Ciò significa che egli è il perno dell’impresa Italia e che è il solo a garantire un’ordine di stabilità e di crescita per il nostro Paese. I lobbisti, le opposizioni e tutti gli antitaliani che giocano al tanto peggio, tanto meglio, se ne facciano una ragione. L’accanimento mediatico-giudiziario alla sua persona, al suo patrimonio, alle sue imprese rischia di generare solo caos e ciò non è il frutto di una speculazione partigiana, ma è purtroppo la cruda analisi della realtà. Di Alessandro Gianmonea Ragion politica
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